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20/1/2019

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In futuro ci ricorderanno per questo: non perché siamo stati capaci di stringerci per accogliere (“dove si mangia in 2 si mangia anche in 3”, dicevano i nostri nonni). Non perché siamo italiani, brava gente.
Per questo, ci ricorderanno: per aver impedito i soccorsi in mare ai disperati.Per aver giocato le nostre europee ipocrisie in punta di fioretto, finanziando in Libia i carnefici affinché si occupino loro dei disperati, senza disturbare noi, per favore. 
Di noi resteranno i racconti dei profughi di Natale, la disperazione di neonati, bambini, donne e uomini in fuga dalla morte che appesta le loro terre e le loro case (morte della quale il nostro stile di vita opulento è molto più responsabile di quanto ci piaccia pensare). 
Quando ero bambina guardavo con occhi pieni di paura i film che raccontavano la “soluzione finale”, gli orrori della Seconda Guerra Mondiale: ero terrorizzata dai comandi urlati dai soldati tedeschi, dalla fredda esecuzione di ordini ineseguibili che decretavano la soppressione di esseri umani senza ragione. Ero atterrita anche dalle rauche risate sprezzanti e dai canti urlati che raccontavano le feste e il riposo dopo la distruzione. E chiedevo a mio nonno “Perché lo avete permesso?”.
Sarò io la prossima a cui i nipoti, le generazioni che verranno porranno la stessa domanda: “Perché lo hai permesso?”, chiederanno anche a me.
Resteranno, di noi, le foto dei pochi resti galleggianti sulle acque gelate, mentre dall’alto delle nostre istituzioni, dal Viminale, rotolano parole di soddisfazione. 
Che cosa abbaierà, oggi, il nostro ministro del santo rosario? Quale oscena merenda esibirà ai nostri sguardi resi ottusi dal torpore? Quale delle sue belle divise indosserà per catturare la nostra pigra attenzione di privilegiati gelosi del bottino nascosto? 
“La gente è con me”, ama ripetere. Odio dovergli dare ragione, ma è così. Anch’io, che in risposta alla sua tronfia sicumera ho gridato mille volte “60 milioni meno una!”: di fronte al mare che inghiotte, persino io sarò con lui, mio malgrado. Ricordata anch’io da chi verrà come del tutto assimilata a lui e alla sua protervia sgangherata. 
Non potremo mai più dire “Italiani, brava gente”. 
Di noi, di tutti noi, resterà questo: l’odio che ci strangolerà e la nostra bava alla bocca, nella quale anche noi annegheremo. 
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I passi indietro della Befana

7/1/2019

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​Passata l’Epifania, si ricomincia. Qualcuno da dove si era interrotto, qualcuno da un po’ più avanti, qualcuno addirittura da qualche passo indietro. 
Quest’anno, per fortuna, non ho ricevuto messaggi da amiche che alludevano al nostro essere “Befane”: non ho mai amato questo sghignazzare sull’equazione donna-befana. Non ci trovavo nessun senso, mi rattristava e basta. 
Al contrario, in nome del politicamente corretto, quest'anno ho ricevuto una marea di messaggi che osannano alle donne, alla loro forza, alla loro integrità, al loro insostituibile valore… E mi sono rattristata anche di più, e anche un po’ seccata. 
La questione femminile mi appassiona da sempre: il mondo in cui viviamo è ancora profondamente ingiusto nei confronti delle donne e noi stesse siamo intrise spesso di una cultura patriarcale che ci penalizza e ci impedisce di dispiegare al meglio le nostre risorse e i nostri progetti. Se davvero il femminile potesse fiorire come saprebbe e allargare il proprio sguardo e il proprio operare, fino a integrarsi alla pari con il maschile, in un intreccio potente che non prevede penalizzazioni reciproche, ma reciproco potenziamento, beh, allora credo tutto ne guadagnerebbe. Ma siamo ancora lontani, purtroppo: nonostante i nostri sforzi quotidiani, l’umanità si è appena messa in marcia e ci vorranno i tempi lunghi del cambiamento culturale profondo per trovare linguaggi e pensieri nuovi che restituiscano alle donne e al femminile il posto che spetta loro. 
Ma che c’entra l’Epifania con tutto questo? Epifania è momento di rivelazione, così potente da generare il superamento di tutto ciò che era vecchio per aderire al nuovo (è questo il senso dei riti popolari che “bruciano la vecchia” all’inizio dell’anno). Epifania, nella tradizione cristiana, è il momento i cui il Bambino si rivela per ciò che è: il figlio di Dio sceso in terra. Il nuovo che irrompe, la potenza divina che si mescola con quanto di più piccolo e fragile e umile si possa pensare. Un bambino poverissimo, che nasce fuori da ogni comodità e anche fuori da ogni consuetudine socialmente accettata, un diverso, debole e impotente nasconde nientemeno che Dio.
Dovremmo pensarci a questa scelta di attribuire potenza a ciò che è impotente, regalità a ciò che è infinitamente umile, dignità a ciò che è socialmente inaccettabile. Per chi crede, è scelta precisa di Dio. Per chi non crede, scelta di un mito che sopravvive da almeno 2000 anni e – come tutti i miti – cristallizza in un’immagine e in un racconto il senso profondo del vivere.
Epifania, momento di rivelazione: per tutti e per ciascuno. Occasione da non sciupare per guardare a sé con l’onestà di chi accetta anche le rivelazioni meno gradite: credevo nella mia supremazia e invece mi scopro senza alcun potere. Credevo che la mia violenza e il mio vigore fossero segno della forza, e invece mi ritrovo debole e senza ripario. Credevo di avere in mano il mondo e me ne scopro ospite marginale. Ma anche: credevo di non aver nulla da dire e invece posso dire e gridare per farmi ascoltare; credevo di essere vittima di una paralisi e invece posso muovermi e fare; credevo di non poter sconfiggere l’isolamento e invece mi scopro parte di una moltitudine…
Rivelazione che ribalta verità e scompagina certezze.
Rivelazione difficile, sempre, perché deve rovesciare abitudini radicate. Come si può facilitarne l’arrivo? Forse cercando di superare lo sguardo cieco che ciascuno di noi ha su se stesso e che tutti insieme, come comunità collettiva, abbiamo su noi stessi in quanto civiltà.  Ponendoci domande semplici, per esempio: “Come mi vedo io e come mi vedono gli altri?”, “Quante e quali maschere indosso, ogni giorno?”, “Che cosa resterebbe di me se smettessi la lotta contro quelli che considero nemici?”, “Come mi piacerebbe rispondere, in futuro, ai miei figli e ai miei nipoti quando mi chiederanno conto delle mie scelte, delle mie affermazioni?”. “Quanti passi indietro sono disposto a fare?”
Ecco, questo è l’augurio che mi piacerebbe per me e per tutti dopo ogni epifania: auguri perché possiamo fare il numero giusto di passi indietro e incamminarci rapidi in una direzione nuova, con tutti i "doni" che sapremo portare e con i "regali" da offrire a ciò che riteniamo davvero importante.

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In Bicocca, a ruggire canzoni e a ballare parole

26/10/2018

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Oggi, mattina dedicata a una lezione in università (Bicocca, corso di Pedagogia del Corpo di Ivano Gamelli, amico e maestro).
Nonostante lo sciopero dei mezzi, c’erano 70 ragazzi presenti.
Il tema, come al solito, era il “mio”, la voce. Nel poco tempo a disposizione abbiamo lavorato intensamente: dal respiro all’ascolto, alla parola e poi al suono, e ancora dal suono alla relazione, di lì al canto (a tre voci) fino ad arrivare a sfiorare il mito. 
Troppe cose, tutte insieme. Ogni volta, prima di cominciare, mi chiedo come potrò mai fare a interessarli. Ma loro, anche stamattina, erano straordinari: aperti, curiosi, disponibili a mettersi in gioco, pronti a offrire fiducia a questa sconosciuta attempata che chiedeva loro cose non proprio usuali (ruggire una canzone, ballare una parola…). 
Li guardavo e non riuscivo a non pensare quanto erano belli. Belli, sì: di quella bellezza che non ha niente a che fare con i canoni del tempo, piuttosto con il mistero della vita in potenza che comincia a svelarsi o con la profondità che si esplora quando ci si affida nel gioco e si ac-coglie l’attimo presente. Era la bellezza delle possibilità impreviste, da cercare là dove fino a un attimo prima c’era solo opacità, perché gli sguardi erano distratti, meraviglie che si dischiudevano all’improvviso, appena riuscivamo a scuoterci di dosso gli eccessi di parole. Perché le parole, quando si dimenticano del corpo dal quale provengono, possono sbriciolare ponti e innalzare barriere. Per questo dobbiamo restituire loro le voci e i canti che si levino sopra gli ostacoli e indichino la via per evadere dalle prigioni nelle quali tutti ci dibattiamo.
Lezione brevissima, oggi. Me ne torno a casa ricca delle voci di quei ragazzi e anche degli abbracci che qualcuno di loro mi ha regalato, prima di uscire. “Mi ha cambiato la giornata, prof”, mi ha detto una di loro. Anche voi, ragazzi, avete cambiato la mia.
Salgo in auto e penso a quanto spesso mi tocca ascoltare i pregiudizi degli adulti sui giovani, colpevoli – a quanto pare – di non assomigliare a come eravamo noi alla loro età. E mi scatta, d’istinto, il monito difensivo: attenzione, adulti, il primo che sbrodola lamentele generiche su questi ragazzi stia in guardia, perché potrei ringhiare. E so farlo benissimo.
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Liliana, Enrico (e Giggino)

12/10/2018

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Mentre bevo il caffè e sfoglio le notizie del mattino, compare sullo schermo del tablet una citazione di Liliana Segre, appena lanciata dagli organizzatori di Molte fedi sotto lo stesso cielo, splendida rassegna di Bergamo. Dice, la Segre: “Coltivare la Memoria è ancora oggi un vaccino prezioso contro l’indifferenza e ci aiuta, in un mondo così pieno di ingiustizie e di sofferenze, a ricordare che ciascuno di noi ha una coscienza e la può usare”. 
Vero, penso, e aggiungo tra me che quella donna è una forza della natura e un dono dello spirito, per chiunque abbia voglia di ascoltarla.
Intanto l’occhio continua a girare sul quotidiano che sto leggendo, ed ecco che trovo il resoconto delle simpatiche cinguettate di Enrico Esposito, che fa dello ‘humor’ (humor?!?) su omosessuali, donne, transessuali in un modo che non ti aspetti di ascoltare nemmeno a un consesso di sbronzi dopo la sagra della salsiccia annegata. Ma no, non si tratta di un cittadino costretto dall’ignoranza ad affogare il vuoto di senso della sua vita nell’umido di maiale e nel vino. No. Si tratta di un cittadino costretto dall’ignoranza – sua e del suo capo – a partecipare alle altezze della democrazia italiana, occupando il posticino di Vicecapo dell’Ufficio Legislativo del Ministero dello sviluppo Economico.  (Nel suo curriculum pare abbia un ruolo importante aver studiato all’università insieme all’attuale ministro, suo capo e paladino della meritocrazia).
Ora che i suoi poetici cinguettii sono balzati alla ribalta delle cronache, ovviamente il povero, piccolo Esposito si lamenta: è finito nella macchina del fango! Le sue battute sono state decontestualizzate! Povero piccino. Gli hanno fatto male quei cattivoni dei giornalisti. A lui che scriveva “Quando ti chiamano ‘ricchione’ o rispondi ‘puttan e mammt’ o vai a piangere dalla maestra. Se fai la seconda cosa sei ricchione davvero” (tweet del 20.01.2016).
 
Non posso fare a meno di pensare a Enrico Esposito e a Liliana Segre, avvicinati dal caso nella mia lettura dei giornali di stamattina. L’una, capace di tenere vive le coscienze, perché non si perda la consapevolezza del rischio che corriamo ogni volta che trascuriamo di leggere il presente alla luce del passato che gli fa da cornice. Il che significa assumersi la responsabilità del nostro presente, che sarà l’apripista e l'inevitabile cornice che darà senso al futuro. L’altro, incapace di riconoscere la gravità oggettiva delle proprie azioni, al punto da non assumersene la responsabilità (“Non ero io, era il mio alter-ego!” pare abbia piagnucolato). 
Coltivare la Memoria e la coscienza, dice la Segre. Per esempio cercare di non dimenticare che nei campi di sterminio, insieme agli ebrei, c’erano anche quelli che Esposito, nella sua inarrivabile eleganza, chiamerebbe ‘ricchioni’. Ricordare che ancora oggi per la maggior parte delle donne è difficile poter contare sulle stesse condizioni garantite agli uomini per progettare la propria vita familiare, lavorativa, pubblica. O soffermarsi a pensare che le opportunità facili e scontate per uno sprovveduto qualunque dotato dei giusti compagni di scuola possono essere precluse per tutta le vita a molte persone a causa del peso greve dei pregiudizi e dello ‘humor’ messo in campo da quelli che a Milano chiamiamo ‘pirla’, cioè trottole capaci solo di girare inutilmente su se stesse. 
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Sconfiggere la povertà o la miseria?

28/9/2018

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“Percepiamo gli altri come un’insidia al nostro spazio vitale. E se il nostro spazio è misero, il tasso di aggressività verso di loro diventa ancora più alto”. 
Questo, leggermente parafrasato, è il passaggio che più mi ha colpito del brano che ho postato ieri su FB. Il libro da cui è tratto (Sicurezza, di Cereghini e Nardelli) è da leggere e non ha solo passi bui, come quello che ho citato. Anzi, è un libro pieno di idee e di segnali indicatori verso vie d’uscita possibili. (Ma niente spoiler).
Quello che mi preme è sottolineare questa relazione fondamentale tra la miseria dello spazio in cui viviamo e la nostra aggressività verso gli altri.
Uno spazio misero non è uno spazio povero: al contrario, può trasudare denaro. Misero è lo spazio al quale non siamo capaci di attribuire significati condivisi, nel quale non siamo più in grado di incontrare gli altri davvero, cioè di lasciare che gli altri lascino un segno. Misero è ciò che (o chi) ha perso memoria del suo passato e si trova a galleggiare in un presente senza fondamenta riconoscibili, sulla cui precarietà è impossibile appoggiare qualsiasi idea di futuro: e senza passato, né futuro ci resta solo questo presente eterno e sofferto, spaventato e annegato nella solitudine.
 
Ma non siamo condannati a questo. Non nei luoghi (fisici, o interiori, luoghi dell’anima) che possiamo arricchire ogni giorno con gli slanci che ci aprono agli altri, che creano legami, che cercano confronti anche serrati e tesi ma dove l’altro è accolto perché è accolta l’idea della sua legittimità, del suo diritto a essere qui, con me, anche se non me lo aspettavo e lo riconosco diverso da me. Sembra poco, ma orecchie che ascoltano, sguardi disposti al rispetto (re-specto: guardo bene e ancora…), confronti accesi ma civili (degni di un civis, un cittadino, cioè una persona che vive e incarna anche la propria dimensione politica), domande e richieste anche ferme ma che non si trasformano in pretese ottuse… e – perché no? - sorrisi autentici, gesti semplici e gentili. È da qui che si deve passare per sconfiggere la miseria.
Ieri, mentre ero in un ufficio comunale, ho assistito a un momento che non dimenticherò facilmente: un dipendente del comune, appena tornato da una vacanza, si è presentato nell’ufficio di un assessore con un pacchettino in mano. “Ho preso questo per lei, signora”. Si è girato verso di me e mi ha spiegato: “Io la chiamo ‘signora’, non mi importa che sia assessore”. Nel pacchetto c’era un magnete, di quelli da mettere sulla porta del frigorifero, con i simboli della città straniera in cui era andato in vacanza: il sole, il mare, che sono anche i simboli della città italiana da cui lui proviene.
Mi ha incantato quel momento, per la gentilezza di un gesto così minuto, ma così pieno di rispetto e di significato. Non era un gesto dovuto, era il riconoscimento di una persona (“signora, non assessore”) da parte di un’altra persona, che si lasciava osservare, attraverso quei simboli portati in dono che raccontavano insieme della sua vacanza e del suo passato. Come se le avesse detto: “So chi sei tu, ti rispetto e ti mostro chi sono io e da dove vengo”. Un io e un tu a confronto grazie a un pezzetto di gesso colorato e a una calamita. Un gesto ricco di storia e di rispetto, non di denaro, che ha trasformato l’ufficio anonimo nel quale ci trovavamo in un luogo vitale, arioso, dove si aprivano possibilità di incontro impensate.
 
Sarebbe bello poter sconfiggere davvero la povertà: l’umanità ci prova da sempre e nessuno ci è mai riuscito. Soprattutto non ci si riesce menando colpi alla cieca, senza un’analisi approfondita di cosa la povertà sia stata nei secoli e di cosa sia oggi. La lotta alla povertà deve impegnarci tutti, in un’azione continua e assidua che è fatta, più che di sforamenti del rapporto tra debito e PIL, di conoscenza e di consapevolezza, che si trasformano in pensieri, scelte politiche e gesti concreti quotidiani.
Ma la miseria, quella sì che si può aggredire, fin da subito: ci vuole il coraggio di mettere a tacere la paura e l’ansia di sentirsi stranieri a casa propria. Serve l’azzardo di uno slancio di apertura là dove vorremmo chiuderci in tana a leccarci la nostra ferita, qualunque essa sia. Per sconfiggere la miseria abbiamo bisogno di uno sguardo capace di sollevarsi da terra quel tanto che basta per vedere che non ci sono un “io” e un “loro”, ma solo un “noi”, che ci lega tutti, indissolubilmente (ci piaccia o no), gli uni agli altri, vicini e lontani. 
 
(E se avessimo bisogno di suggerimenti: L’oro di Napolidi Giuseppe Marotta e “Reginella”, la splendida canzone di Libero Bovio, potrebbero essere un buon inizio).

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Cercatori di sé, tra il confine e l'infinito

8/1/2016

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“Di chi è la voce
che mi chiede di essere
asciutta risonanza
bucato steso al sole
umilmente in attesa
di laboriose mani

[…]”

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​​​​Una poesia di Chandra Livia Candiani, della quale qui riporto solo i primi versi ma che merita di essere letta tutta, a lungo ruminata, fino a che le parole non dischiudano i loro confini, liberando aromi  e sentori nascosti, imprevedibili a una prima lettura.
Da questa poesia prende il nome il laboratorio di ricerca sulla voce e sul suo legame profondo con il processo continuo di consapevolezza e di trasformazione di sé che insieme a Fabio Michelini proponiamo a Philo dal 2014.
Non è un laboratorio di canto, eppure cantiamo tanto. Non è un laboratorio di tecnica vocale, anche se alla tecnica minuziosa dedichiamo una grande attenzione. Non è un laboratorio di recitazione, anche se la lettura ad alta voce trova sempre spazio nei nostri incontri. Non è un laboratorio di meditazione, anche se non si parte mai se non si arriva prima a sé, nel qui e ora.
“Di chi è la voce…?” è tutto questo e anche di più: è l’incontro ogni volta meravigliato di ciascuno con l’essenza più profonda di sé e con l’autenticità degli altri, attraverso l’esercizio costante della voce che, nella pratica rigorosa, diventa esercizio spirituale capace di tener e insieme con leggerezza le superfici e gli abissi.
È la scoperta di poter fare ed essere, grazie alla propria voce, come non si sarebbe mai pensato. E al contempo la rivelazione di una trasparenza che si credeva perduta con l’infanzia.
In un clima di assoluto non giudizio e di gioco insieme, si incontra, attraverso la voce, il proprio limite, il confine dell’anima, e si tocca con mano quanto è pieno e denso ciò che dentro quel confine è contenuto, quanto il limite sia un’occasione per esplorare modi di sé impensati ma forse possibili.
Ognuno ricercatore di sé, ma nessuno ricercatore solo per sé, nell’atmosfera solidale che ci fa cercatori insieme, attenti alla sostanza e al contempo capaci e desiderosi di trasformazione.
Il prossimo appuntamento è per venerdì 8 gennaio, a Philo.

A questo link tutte le informazioni:  http://goo.gl/uBRFXq
Per iscrizioni: email a info@scuolaphilo.it  


 



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Resistere qui, adesso

23/4/2015

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Mai fatta tanta fatica a sentirmi europea come in questi giorni: provo un senso di ribellione profonda e un altrettanto profondo disgusto. 
"Affondare, distruggere, respingere" sono le parole che sento da chi dovrebbe saper guardare un po' più lontano di noi. Evidentemente, la posizione al vertice non può sostituire la statura politica e umana: e a noi mancano politici, amministratori… ci manca un'intera classe dirigente dotata di statura politica e umana.
Ieri, un giovane di 25 anni mi chiedeva: “Perché devo stare qui se non ho nulla per cui valga la pena lottare, se non me stesso? Io vorrei lottare per qualcosa che sia un po’ più di me stesso!”
Mi vergogno molto. Penso spesso a quando un giorno i nostri figli e nipoti si guarderanno indietro e ci chiederanno perché siamo stati in silenzio, esattamente come io chiedevo perché si erano lasciate passare le leggi razziali, le discriminazioni, le torture e lo sterminio. Ascoltando quel giovane uomo, ieri, mi sono resa conto che quel giorno è già arrivato.
Ci vuole coraggio ad andarsene. Ma ci vuole coraggio anche a stare qui, continuando a guardare ciò che sta accadendo nel Mediterraneo e nei palazzi dell’Europa. Non si può accettare che la nostra cittadinanza venga ridotta alla bieca difesa dei nostri interessi (non è questo che mi hanno insegnato, non è ciò in cui credo), e non si riesce al contempo a riconoscere nella classe dirigente alcun segnale che possa condurre oltre. Mancano gli sguardi e le visioni che sappiano coagulare gli slanci sani, solidali, aperti, attenti. Manca una cultura politica e umana.
Si vorrebbe essere altrove e in un altro tempo. E invece siamo qui, adesso. Il compito più difficile, forse, è non smettere di credere che sia possibile, continuare a credere che le forze buone capaci di resistere trovino, per le vie misteriose dell’interdipendenza, una strada per costruire legami, per fare rete e per impedire lo sfascio al quale sembriamo, inesorabilmente, indirizzati. Non smettere di vivere nel modo più giusto possibile la propria vita e affidarsi a un’istanza superiore, uno spirito aperto, laico, che sappia raccogliere il buono e fecondare di sé questo mondo malato, fino a che una trasformazione possa avvenire.
Dopodomani sarà il 25 aprile: dalle speranze generose di 70 anni fa, da quelle crocifisse 2000 anni fa mi piacerebbe raccogliere la forza per superare la vergogna e resistere qui, adesso.
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 700 

19/4/2015

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L’insensatezza di 700 vite umane inghiottite dal mare ha travolto questa giornata, nella quale avrei voluto ringraziare con gioia tutti gli amici che ieri ho incontrato, dopo tanto tempo, alla libreria Ubik di Omegna.
Com’è possibile che non siamo capaci di evitare un orrore tanto assurdo?
Leggere che nei primi mesi del 2015 abbiamo perso in mare 1700 vite, mentre negli stessi mesi del 2014 le persone morte nell’identico modo erano 17 mi ha sconvolta anche di più.


Al di là dei tornaconti finanziari, al di là di questioni di bassa politica (perché bisogna dirlo: è inequivocabilmente bassa una politica che cerca di “risolvere” un problema peggiorando-ne gli effetti di 100 volte nel giro di un anno), al di là di tutto ciò, come è possibile affrontare una questione tanto complessa dimenticando che gli spostamenti e le migrazioni umane sono un dato antropologico? Gli essere umani si spostano e migrano di terra in terra fin dal primo affacciarsi di Homo Sapiens sulla scena del mondo, molto prima dell’istituzione di nazioni, paesi e confini. Non si possono fermare le migrazioni come non si può fermare la vita stessa che chiede di continuare e di non essere oggetto di scempio. Tutti gli esseri viventi, di qualsiasi specie, lasciano gli ambienti inospitali che costituiscono minaccia alla vita per cercare ambienti più favorevoli. In nome di che cosa ci aspettiamo che gli esseri umani possano costituire un’eccezione? Come possiamo pensare che uomini e donne non cerchino scampo da povertà, guerre, persecuzioni?

Che cosa faremmo noi, se fossero le nostre vite quelle segnate dalla miseria senza prospettive? Se fossero i nostri figli quelli senza futuro? Se la guerra entrasse nelle nostre case devastando ogni forma di sicurezza? Se l’odio e la sopraffazione impedissero a noi di condurre la vita che riteniamo buona e giusta per noi, per i nostri bambini e i nostri vecchi? 

Leggo, con orrore crescente, le manipolazioni violente di chi cerca di fomentare, attraverso l’odio di religione, la contrapposizione tra “noi” e “gli altri”, anche quando gli altri giacciono in fondo al mare. 700 altri, disperati e alla ricerca soltanto di vita dignitosa, cancellati in un solo momento, mentre noi sguaiatamente gridiamo alla loro invadenza e alla minaccia costituita dal loro tentativo di raggiungere le nostre terre. Leggo commenti osceni, come sempre ormai sui social network, e leggo frasi virgolettate che feriscono tanto più perché sono attribuite a una donna: anziché lottare perché venga affermato il diritto alla vita a partire dai più deboli, si invocano interventi dell’aviazione per affondare i barconi.

Quando la nostra civiltà ha perso la capacità di riconoscere nell’altro la stessa nostra umanità? Quando, non riconoscendo l’umanità altrui, siamo diventati, noi per primi, disumani?

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Il corpo e il reato. Storia di uno stigma

9/10/2014

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Siamo con il fiato sospeso, in queste ore, il pensiero al ragazzino di Napoli brutalmente seviziato da tre uomini di 24 anni, che si sono accaniti su di lui fino a ridurlo in fin di vita.  Perché è grasso.  E, lo sappiamo, essere grassi è indice di mancanza di controllo e di debolezza, è indice di colpa grave: non si può, non si deve.
Ma da quando?

Le tracce delle civiltà più antiche pervenute fino a noi, testimoniano che l’obesità era presente fin da allora ed era considerata un vantaggio sociale, perché contraddistingueva quegli individui che in caso di carestia avrebbero avuto maggiori probabilità di sopravvivenza.
Nel tardo medioevo[1], a opera soprattutto del clero, la grassezza comincia ad essere indicata come colpa, segno di debolezza morale e di cedimento al peccato capitale della gola. Con il sopraggiungere della modernità, alla riprovazione morale si unisce il discredito: bollato non solo di indulgenza alla gola ma anche di scempiaggine, l’obeso diventa il simbolo del parassitismo dell’aristocrazia che grava con il suo peso sul dinamismo delle nuove forze produttive e borghesi.
Dal piano morale le critiche agli obesi scivolano gradualmente al piano psicologico fino ad arrivare a una concezione di grassezza definitivamente pensata come conseguenza di attitudini individuali, di tratti di personalità, perfino di modi di pensare: alla fine del XIX secolo, Manuel Leven inaugura la lunga serie di studi che associano nevrosi e obesità.
Le norme rigorosissime che nelle società occidentali contemporanee impongono la perfezione dell’aspetto del corpo definiscono anche, per differenza, il biasimo nei confronti dei trasgressori, determinando nuove discriminazioni di genere e di ceto. Nei confronti delle donne obese, infatti, si esercita una maggiore severità di giudizio, perché è soprattutto il corpo femminile quello dal quale ci si attende la perfezione sottile e flessuosa che avvicina all’ideale. Nelle classi meno abbienti, inoltre, si ha un maggior numero di obesi, vittime delle conseguenze di un’alimentazione a basso costo e di pessima qualità: l’obesità, cambiando classe sociale, cambia anche il proprio segno morale e passa da motivo di ammirazione, quale era nell’antichità, a bersaglio di censura oggi.
Da più di un secolo siamo impegnati costantemente a migliorare i modi a nostra disposizione per conoscere con esattezza il nostro peso, allo scopo di controllarlo e dominarlo. Da un tempo ancora maggiore tentiamo di imbrigliare le forme del corpo utilizzando strumenti di costrizione quali corsetti, busti, lacci che lasciano il posto oggi a regimi dietetici e terapeutici sempre nuovi. Molti di essi segnano buoni successi, soprattutto se sono connessi al progredire delle conoscenze scientifiche. Ma d’altra parte anche le resistenze si moltiplicano, dando luogo a una invarianza di forma e peso nonostante la molteplicità di trattamenti. Ciò che crea ostacolo al dimagrimento, allora, può divenire preoccupazione, oggetto di inquietudine crescente, infine allarme generale quando la tendenza all’assottigliamento si impone quale pratica obbligata. Così, la stigmatizzazione si sposta dalla censura della grossezza a quella dell’impotenza: l’obeso sembra non poter cambiare, in un mondo in cui le affermazioni di potere e controllo su di sé e sul proprio corpo sembrano non tollerare ostacoli di alcun genere. La riprovazione, allora, si fa più psicologica, più intima: non si tratta più di accuse di scempiaggine o di golosità, quello che è in gioco, a questo punto, è la mancata padronanza di sé. L’obeso viene visto come una persona che soffre di una totale mancanza di autocontrollo, comprovata dal fatto che il suo corpo continua, imperturbabile, a essere grasso e brutto, mentre tutto indica che esso dovrebbe cambiare.

[1] Vedi George Vigarello, Les metamorphose du gras. Histoire de l’obésité, Edition du Seuil, Parigi, marzo 2010.



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Forte e sottile è il mio canto

27/9/2014

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In libreria dal 24 settembre 2014 
http://forteesottileilmiocanto.weebly.com 
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