![]() La prima volta che l'ho visto di persona ho rischiato di travolgerlo con la macchina: entravo nel parcheggio sotterraneo dell'università proprio per andare ad ascoltarlo e, in fondo alla curva cieca dell'ingresso-auto me lo sono visto improvvisamente davanti, là dove i pedoni non è prudente che passino. Abituata a vederlo nelle interviste e nei filmati, me lo aspettavo molto alto, invece era minuto, fragilissimo, anche se eretto ed elegante nell'incedere. Ho inchiodato a pochi centimetri dalla sua sgargiante tunica nei colori caldi dal beige all'arancione e mi sono guadagnata uno dei suoi magnifici sorrisi, quasi birichino, come a dire: "So che non dovrei essere qui, ma... eccomi!". Si illuminava tutto, quando sorrideva, e illuminava tutto quanto gli stava intorno. Vederlo sorridere era come assistere a qualcosa di profondissimo e vitale che improvvisamente emergeva, gettando una luce nuova su quello che stava accadendo e soprattutto su di te che lo stavi a guardare. Ero incantata dai suoi sorrisi, una sintesi perfetta di come lo spirito, l'anima e il corpo possano gioire insieme, in consapevolezza. L'ho incontrato di persona solo tre volte, sempre in mezzo a molta gente, e solo la prima volta - quella del mancato stiramento in auto per intenderci - abbiamo scambiato poche parole, durante un intervallo per il caffè: commentava con una gioia contagiosa la vista di un vassoio di paste, che aveva scorto in un angolo e ne rideva deliziato. Così piccolo, così trasparente, così profondo e leggero a un tempo. È un uomo che mi ha cambiato la vita. Quando guardo alla mia storia personale, soprattutto al mio rapporto con la fede cristiana, posso senz'altro individuare un prima e un dopo l'incontro con Panikkar: con le sue parole, i suoi testi e infine con la sua persona e il suo modo pacato di ascoltare prima, riflettere poi e infine parlare. Ricordo, durante un convegno, un uomo molto più giovane di lui, chiaramente emozionato, fargli dal banco dei relatori una domanda complicatissima, in un linguaggio troppo specialistico e forbito, che sapeva di difesa e di "maschera". Lui, che della precisione linguistica aveva fatto uno dei cardini della sua filosofia (era un sacerdote e la sua formazione senz'altro doveva molto allo studio della scolastica) si fece molto serio, intento e chiese di poter avere qualche momento di silenzio. Tutti tacemmo con lui, osservandolo entrare in se stesso ad attingere da quella sua interiorità profondissima le energie per rispondere. E poi rispose in modo trasformativo: con gentilezza accogliente, trasformò la questione complicata e irta di astrusità in un concetto semplice, assimilabile, che tutti noi comprendemmo grazie alla sua risposta. Non ci fu nemmeno un'ombra di rimprovero, o anche solo di distanza nei confronti di chi gli aveva posto la domanda. Ci sentimmo tutti vicini, quella volta, a lui, che aveva risolto così semplicemente la complessità inavvicinabile, e soprattutto al relatore impacciato, che forse per paura aveva scelto linguaggio e postura poco felici. Questo "sentirsi vicini a...", sentirsi in comunione, era uno degli effetti più poderosi dell'ascoltarlo o del leggerlo. Poteva dire di sé: "Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindù e ritorno buddhista, senza cessare per questo di essere cristiano[1]" e immediatamente si veniva folgorati dall'evidenza dell'inutilità di divisioni e dicotomie. E questo valeva per le religioni, come per le persone fino ad arrivare alla dimensione più intima dell'essere umano, che rischia di essere lacerato, diviso nella sua stessa interiorità ogni qual volta non riesce ad accettare il mistero, l'inconoscibile dentro e fuori di sé. Se io sapessi tutto di me, se fossi trasparente a me stesso, se fossi come un angelo, se nessun motivo delle mie azioni mi fosse sconosciuto, se nulla di ciò che sono mi fosse oscuro, la mia vita non avrebbe rischio, non ci sarebbe nulla che mi sorprenderebbe, nulla che mi avvincerebbe e che mi colmerebbe di stupore. Conoscendomi per quello che sono, avendo il mio essere nella mia mente, sapendo tutto quello che mi appartiene, né il futuro mi rivelerebbe nulla, né la vita mi mostrerebbe qualcosa di nuovo. Non avrei libertà.[2] Accettare, con gratitudine e fiducia, il mistero di ciò che non conosciamo, sia esso lontano, vicino o addirittura dentro di noi. Aprire la mente ma soprattutto il cuore alla possibile armonia di ciò che è diverso. Riscoprire il lato femminile e accogliente, così difficile in una società come la nostra, affetta da machismo. Accogliere con gentilezza, accettare per trasformarsi e trasformare. Quanti e quali insegnamenti ho ricevuto da lui! Quanto ancora avrò da scoprire leggendo le sue parole e ascoltando le registrazioni della sua voce fluida e vivace! Operava instancabilmente nella direzione del dialogo, del quale amava dire: "è molto più pericoloso di quanto non si creda: la parola deriva dal greco dià ton lògon, che significa sopra, oltre il logos. Per questo il dialogo non si può costruire solo con il logos. Perché ci sia dialogo occorre affidarsi allo Spirito[3]". Era proprio la presenza quasi palpabile dello Spirito in lui e intorno a lui a lasciare straniti prima, commossi ed emozionati poi. La sua capacità di essere presente, completamente, in ogni minima azione rendeva all'improvviso evidente la sacralità della vita, ti invitava a celebrarla qualunque fosse la condizione che ti era dato vivere in quel momento. Rapidamente, ti sapeva condurre verso il senso più profondo dell'esistere. Ti invitava ad accettare i tuoi limiti per scoprirti del tutto, senza riserve, parte di una vita più grande, alla quale eri comunque indispensabile ("Siamo tutti preoccupati di essere una goccia d'acqua nell'oceano e ci dimentichiamo di essere l'acqua della goccia"). La sua visione cambiava, convertiva, radicalmente. Trasformava, copernicanamente, metteva al centro ciò che era sempre stato periferico e ribaltava in una posizione subalterna le "grandi" questioni, appannaggio della sola ragione. Invitava alla riscoperta della purezza del cuore, della mistica - che indicava come la sola possibilità di salvezza di ogni religione dal rischio di cadere in credenza e in ideologia - e predicava una nuova innocenza, cioè una capacità adulta e matura, consapevole del rischio, di vivere ogni istante come se fosse il primo, ma anche l'ultimo. Ora che il suo ultimo istante terreno è scivolato dietro di noi, non si riesce a dire che "è morto": Panikkar è più che mai vivo ed è con noi esattamente come il Cristo Risorto è con noi, dentro di noi, dentro alle più piccole azioni che intrecciano di sé la nostra quotidianità. A noi, dunque, offrire anche a lui, mediatore tra noi e il Cristo, mani, piedi, spirito, affinché l'opera iniziata non possa dirsi interrotta. E dopo le lacrime, che si fatica a trattenere oggi, a noi il compito di riscoprire e offrire anche una traccia del suo splendido sorriso. Grazie, davvero.
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AuthorDomitilla Melloni Archivio
Gennaio 2016
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